allegroconbiro
9664812F-D113-4B39-A273-629677859A2F

Quella volta sul ponte

Quella volta sul ponte, eravamo io Marta e Melanzana.

La chiamavamo così Carlotta, da quando in prima superiore si era fatta i capelli viola, in un impeto da adolescente ribelle.

Guidavo io e cantavamo a squarciagola “Livin’ on a prayer” di Jon Bon Jovi.

Era l’estate del 1995, eravamo giovani, felici, ubriache di libertà e bellezza.

Era la prima vacanza da sole, dopo la maturità, la prima volta insieme, la prima volta senza genitori, il primo assaggio di libertà vera: passare quel ponte e lasciarsi alle spalle quella città vecchia, la monotonia dei pomeriggi nel parchetto di Certosa, e anche quella parte di noi, ancora ragazzine, con l’università da scegliere, non ancora donne… ancora per poco.

Quella volta sul ponte, scartavo un panino dalla carta stagnola, appollaiata sul sedile posteriore dell’auto, a guardare fuori le luci di quella città amica e sconosciuta, un pezzo di mare lontano, che sognavo ogni estate, nella calura di Torino.

Partivamo di sera, poco prima di cena, non appena l’afa mollava la presa. Arrivavamo nei dintorni di Genova giusto per l’ora di cena; allora mia madre ci porgeva i panini con la cotoletta, a me e a mia sorella, e cenavamo così. Bocconi lenti, poco prima di cedere al sonno, che ci avrebbe viste incastrate – testa, piedi, piedi testa – sognando le spiagge bianche di Parghelia.

Quella volta sul ponte guidavi come un pazzo, e io ci provavo a respirare come mi avevano insegnato, ma ogni volta che la pancia diventava dura, e quel dolore saliva da un luogo così profondo che nemmeno pensavo di possedere, ti afferravo la coscia, oltre la leva del cambio, e stringevo forte fino a sbiancare le nocche; e tu allora acceleravi di più e io ci provavo a scherzare, che al Gaslini volevo arrivarci sulle mie gambe a partorire, mica in ambulanza, ma proprio non ci riuscivo. E tu lo sapevi, e mi dicevi “siamo quasi arrivati”, me lo ripetevi come un mantra.

Lo stesso mantra che ora ripetiamo a Mattia, quando legato sul seggiolino ci tormenta. “Siamo arrivati? Siamo arrivati? Siamo arrivati?”

E io penso a quella notte folle quando, su quel ponte, pareva di volare; consapevoli che, passato quel ponte, la nostra vita sarebbe cambiata per sempre.

Quella volta sul ponte il camion ha sbandato all’improvviso, e tu ti sei svegliato in tempo per evitare di andare a sbattere contro il guard-rail.

Hai riafferrato il volante col cuore che batteva all’impazzata e gli occhi sbarrati, ora. Hai rallentato di botto, la foto dei tuoi figli che ciondolava dallo specchietto retrovisore, insieme al rosario ortodosso. Non c’era nessuno per strada. Hai imboccato la galleria a passo d’uomo, finché un collega non ti ha fatto i fari, da dietro. Allora hai accelerato con cautela, continuando a mormorare a fior di labbra, la preghiera che ti aveva insegnato tuo padre, insieme a quel mestiere, rivolta a San Giovanni il Russo, patrono dei viaggiatori. Giurasti che saresti andato in pellegrinaggio all’Isola di Eubea, a rendere omaggio alle sue reliquie depositando un ex-voto, per la grazia ricevuta.

Quella volta sul ponte, ho capito che ti amavo.

Avevamo litigato per una ragione talmente stupida che nemmeno me la ricordo più, e tu guidavi imbronciato, con quella ruga in mezzo alla fronte, che ti appare ogni volta che discutiamo.

Io guardavo il tuo profilo, e l’ho capito proprio in quel momento che ti amavo. E mi sono messa a ridere, per l’assurdità della situazione.

Tu che guidavi torvo, e io che ti amavo. E ridevo, ma ridevo senza riuscire a fermarmi e tu che ti incupivi sempre più, pensando che ti stessi prendendo in giro… mi guardasti scuro in viso, ma sono certa che me lo leggesti negli occhi quello che provavo, perché iniziasti a ridere anche tu.

Ridevamo come pazzi, tanto che dovemmo fermarci sulla corsia di emergenza per riprendere fiato.

Quella volta sul ponte, io non c’ero.

“Meno male, mamma, che non eri sul Ponte Morandi”, è la frase che Davide mi ripete più spesso da quel giorno.

C’ero due ore prima, senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta. Il commiato è un lusso che non sempre ci è concesso.

Non c’erano i miei genitori, né mio figlio. Non c’era il mio compagno, mio fratello e la sua famiglia, e nemmeno le mie amiche più care.

Ho ricevuto un messaggio alle 11.42 di quel 14 di agosto, da un amico che stava andando all’IKEA con le bambine.

“E’ venuto giù il Morandi.”

E non capivo cosa mi stesse dicendo, giuro. Io nemmeno sapevo che si chiamasse “Ponte Morandi”, l’ho scoperto quel giorno lì. Per me, come per tanti genovesi, era il ponte di Brooklyn.

Poi ho capito. Ho capito l’enormità di quello che era successo, di quello che avevo appena scampato.

Io non lo so quanto possano lavorare veloci le sinapsi, ma in quell’istante le ho usate tutte per realizzare in pochi istanti che tutte le persone che amavo erano al sicuro, lontano da Genova.

E col cuore pesante ho tirato un sospiro di sollievo, attendendo l’esito del disastro.

Quella volta, sul ponte, c’era tua figlia. C’erano i tuoi nipoti, tuo padre e tua madre, tuo fratello, i tuoi migliori amici.

Siamo tutti sopravvissuti.

Quella volta, sul ponte, c’eravamo tutti.

Leave a Reply