allegroconbiro
cabina2

Partenze

Oggi ho visto le lacrime di un’adolescente, mentre salutava le amiche del mare.

Avrei voluto dirle che lacrime così ne ho versate tante anche io, e ancora tante, per lei, aspettano di essere versate.

Gli abbracci stretti, le amicizie che sembrano “per sempre”, la malinconia, l’entusiasmo e la noia di ritornare sui banchi di scuola, gli amori estivi, sfogliare le foto col magone, i bracciali colorati, la voglia inconfessata che arrivi l’autunno per farsi avvolgere dal maglione preferito, il batticuore sulle scale della scuola al pensiero di rivedere proprio lui, e chissà se si ricorderà ancora di me e soprattutto, chissà se mi piacerà ancora.

Volevo dirle che tutte queste cose le conosco e me le ricordo bene.

E mi dispiace per lei invece, perché non conoscerà tante altre cose che hanno fatto parte del mio passato, e mi hanno insegnato il valore dell’attesa, del vuoto, dell’essere sospesi prima di lanciarsi a capofitto in una nuova esperienza di vita, con l’entusiasmo dei quindici anni.

Oggi il vuoto e la mancanza si colmano sui gruppi whatsapp e su Facebook.

Quando io avevo la sua età toccava alle manciate di gettoni, infilati febbrilmente per terminare una conversazione, e solo poi alle schede telefoniche, la prima vera rivoluzione nella comunicazione.

Alle lettere, scritte con calligrafia incerta, calcate nella carta morbida dei block notes con la punta tonda della Bic, il godimento dello scrittore.

Voi ce l’avevate un’amica di penna? Io ne avevo decine.

I miei primi esercizi di scrittura.

Mi dispiace per te, mia giovane amica, perché non conoscerai mai l’emozione di aprire la cassetta della posta e trovare una lettera indirizzata a te. Indovinarne il mittente dal timbro sbiadito, il contenuto dal peso.

E nessun sms inaspettato potrà mai farti battere tanto il cuore.

Mi dispiace anche che tu non possa conoscere la solitudine delle cabine telefoniche, le cornette con quell’odore stantio di plastica che ha preso troppo sole e troppi respiri diversi, e l’odore metallico nelle mani lasciato dal cavo che tentavo invano di arrotolare nelle conversazioni interminabili, scandite dal ritmo delle monete che cadevano giù, 200 lire alla volta.

Non conoscerai la rivoluzione delle schede telefoniche, la smania di collezionarle tutte

Non saprai l’agitazione di comporre il numero, prefisso compreso, un tasto alla volta, né l’attesa di sapere chi avrebbe risposto dall’altro capo del filo.

La frase fatta, pronta, in caso a rispondere fosse stata la mamma o – dio me ne scampi – il papà! Da formulare tutta d’un fiato. E il cuore in gola, ad ascoltare il rumore della cornetta che frega sul ripiano, a fianco al telefono e l’attimo sospeso quando lui, o lei, la raccoglieva e cominciava a respirare piano, soffiando un “Ciao” che non ho mai più ritrovato in nessun dispositivo elettronico così denso di attese e significati.

Quanta poesia si è persa coi cellulari.

Non conoscerai la noia dei pomeriggi estivi, passati in pineta, a far ingoiare monete dal juke-box – due canzoni alla volta dal Festivalbar – e a scrivere cartoline.

Gli indirizzi precisamente trascritti in una rubrica, in ordine alfabetico, in mille calligrafie e colori di tratto-pen diversi, a fianco del numero di telefono di casa, ogni amico personalizzato da disegnini e figurine adesive.

“Chiamami, scrivimi. Prometti. Tanto l’anno prossimo torni? Vero che torni?”

Scambiarsi bracciali uguali, ciondoli, orecchini.

Non conoscerai, amica, l’emozione e la sorpresa di una dedica alla radio, la domenica mattina o la sera tardi, nei programmi a cui Maria de Filippi deve tutto.

La canzone dell’estate, ascoltata in pieno inverno, ha un sapore già vecchio, di qualcosa che è stato e forse nemmeno manca più.

E nemmeno saprai, o dolce amica, la dolcezza delle foto mandate a sviluppare. L’attesa, due, tre giorni, per rivedere le facce amiche e versare ancora una lacrima su quegli occhi verdi in cui ti sei persa una notte al chiaro di luna, di fronte a un falò.

E no, nemmeno la magia di un falò sulla spiaggia, conoscerai. A infilarsi la sabbia nelle scarpe e nella schiena, e bere birra calda e cantare canzoni stonate al cielo di agosto, facendo a gara a chi conta più stelle cadenti.

“L’hai espresso un desiderio?”

“Sì, non lasciarmi mai.”

Il tempo di un’estate, o forse poco più.

Mi hanno sempre fatto schifo le partenze.

Tante ne ho fatte e altrettante ne ho subite.

Ho pianto e fatto piangere, ho abbandonato e sono stata abbandonata, sono tornata a volte, e a volte no.

Sono corsa dietro treni in partenza, ho sventolato fazzoletti e di più ne ho riempiti di pianti interminabili, sul sedile scomodo di un aereo, o su quello posteriore di una macchina, quando ancora non erano obbligatorie le cinture di sicurezza.

Perché alle partenze non ci si abitua mai, piccoli lutti personali, sindrome dell’abbandono da tenere a bada a colpi di “tanto ci sentiamo presto, no?”.

E quando ho potuto ho semplicemente girato sui tacchi, ingoiando le lacrime, andando avanti a testa alta, fino alla prossima estate, fino alla prossima promessa d’amore.

 

Leave a Reply