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Dialogo interculturale, ovvero: non c’è peggior sordo…

Ci ho pensato un po’ prima di scrivere questo post, ché poi mi sento dire che parlo sempre delle stesse cose, che scriverne non serve a niente, che niente può cambiare.

Ma io penso che parlarne sia importante, almeno è un modo, e insomma ve la faccio breve.

Vi racconto cos’è successo un paio di sere fa, una cosa spiacevole ma niente di nuovo per Genova e per l’Italia.

L’uomo nero tiene un corso di danza, e le sue allieve hanno trovato per l’estate un bel posto all’aperto vicino alla spiaggia.

Lo spazio è offerto a titolo gratuito da una Cooperativa che tratta coi disabili; gestiscono una spiaggia tutta attrezzata per le carrozzine, e sono persone aperte e disponibili, di una correttezza e di un entusiasmo disarmanti.

Martedì scorso era la terza volta che si incontravano per ballare e suonare tutti insieme.

Suonano le percussioni dal vivo, sì, e fanno rumore, sì, ma una volta a settimana dalle 20 alle 21.

Inoltre le case sono dall’altra parte dell’Aurelia, anche se con le finestre aperte immagino che il rumore si senta abbastanza.

Martedì scorso si avvicina un signore sulla settantina; erano le 19.30.

Comincia a dire che non fa più vita, che non ne può più di sentire questo rumore – “ché questo per me non è musica, è rumore” – sotto le sue finestre, che non riesce nemmeno a sentire la televisione.

I responsabili della cooperativa intervengono, in maniera molto pacata, a spiegargli che si tratta di un disturbo relativo dato che avviene un’ora alla settimana in un orario decisamente accessibile.

Alché lui comincia a minacciare di chiamare i carabinieri, e questi “prego faccia pure, noi abbiamo tutti i permessi” (dalle 20 alle 21, ve lo ricordo nel caso vi fosse sfuggito).

Poi lo vedi rivolgersi a uno dei percussionisti “lei è francese?” (in effetti sì, lo è, anche se ama definirsi cittadino del mondo dato che ha vissuto un po’ ovunque). “perché vede, se io vengo in Francia rispetto le leggi io, e non vengo a disturbare, io”.

Ahia. Qui si mette male.

I ragazzi della cooperativa (che poi ragazzi, i due gestori sono suoi coetanei, sulla 60ina forse) cercano di farlo ragionare, in maniera gentile ma ferma, raccontandogli che qualche sera prima avevano organizzato una serata di musica per i ragazzi disabili, “e avesse dovuto vedere che bella serata è uscita fuori”.

Ma di fronte all’irremovibilità dei gestori ecco saltare fuori la vera ragione per cui era venuto a lamentarsi “io non capisco questi cosa ci vengono a fare qua, che se ne tornino a casa loro, qui ci vogliono le bombe, ve lo dico io”.

Riferendosi ovviamente all’uomo nero a uno dei percussionisti, africano anche lui.

A me è scappato un “guarda che mio marito è italiano come te…”, ma mi sono zittita dopo un’occhiataccia dell’uomo nero che mi invitava a farmi i fatti miei.

Mentre uno dei ragazzi che era lì non ci ha più visto e ci è partito a testa bassa con malo modo e male parole che non vi riporto ma che potete facilmente immaginare. E’ riuscito solo a concludere con un “noi qui i razzisti e i fascisti come te non li vogliamo, capito?”

Il signore se n’è andato quindi sbraitando che avrebbe chiamato i carabinieri, noi abbiamo calmato il nostro amico e cominciato la lezione con un pochino di anticipo, per evitare rogne coi carabinieri che effettivamente poi si sono presentati, hanno assistito a 10 minuti di lezione chiusi in macchina (sorvegliati dall’alto dal nostro amico che sbirciava dalla finestra), e se ne sono andati senza dire “A”.

Le mie riflessioni sull’episodio sono svariate, e sono evolute nei giorni, digerendo il fatto.

A caldo ovviamente c’è stata la rabbia e la frustrazione del “siamo un paese di merda, siamo una città di vecchi di merda che preferiscono stare davanti alla TV che uscire, che stanchezza, che fatica, che pesantezza vivere in una città e in un paese di merda che ti leva ogni entusiasmo e ogni voglia di fare, i fascisti e i razzisti di merda esistono ed esisteranno sempre e sono ignoranti come tacchi senza alcuna voglia di evolvere o di mettersi in ascolto reale di chi hanno di fronte”.

A freddo è rimasta solo tanta amarezza.

Perché se tutto quello scritto sopra è vero e sacrosanto, resta però il fatto che questo episodio non ha portato alcun risultato.

Il povero omino resta e resterà nella sua becera ignoranza, senza nemmeno immaginare che quella che lui chiama “rumore” è l’anima del jazz, del soul, del funk, del rock e dell’hip-hop, per dire.

Né che chi stava facendo quel “rumore” alle 19.30 non era un negro che deve tornare al suo paese, ma un bambino, italianissimo, che stava imparando a suonare un ritmo – guidato in effetti da un negro che deve tornare al suo paese – sui tamburi africani, affinando coordinazioni e stimolando le sinapsi nonché il suo cervellino e la sua anima all’apertura e all’accoglienza.

E non apprezzerà, per esempio, che quei due negri che devono tornare al loro paese, sono lì, a portarci un pezzetto della loro tradizione, a spiegare con pazienza passi e ritmi, anziché, per dirne una, stare in strada a spacciare o a rubare.

Noi abbiamo vinto sì la nostra battaglia, abbiamo fatto la nostra lezione, abbiamo danzato, ci siamo divertiti, la polizia non ci ha considerato e chi era sulla fermata del bus lì di fronte ha ballato e battuto le mani con noi aspettando l’autobus, e hanno ballato e battuto le mani anche i ragazzi disabili che erano venuti a prendersi l’aperitivo in quel bar dedicato a loro; però non siamo riusciti a fare arrivare il nostro messaggio là dove ce n’era più bisogno.

Non sarebbe stato meglio invitare quel signore a restare, a condividere con noi? A raccontarci com’era

quella spiaggia 50 fa, quando lui aveva la nostra età, e magari ci arrivavano i pescatori.

E  l’uomo nero avrebbe potuto raccontargli delle spiagge dell’Africa e dei pescatori che arrivano anche lì con le piroghe, e fargli capire che in fondo non è un mondo così diverso e distante come si pensa.

Forse questo signore avrebbe strepitato e se ne sarebbe andato lo stesso.

O forse per una sera avrebbe preferito spegnere la tv e concedersi il lusso e la novità dell’ascolto reciproco.

Non lo sapremo mai, ma faccio tesoro dell’esperienza per la prossima volta che tanto, ahimé, ci sarà.

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