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G8

19 anni fa iniziava il G8 di Genova.
E noi allora credevamo in un mondo diverso, che poteva ancora essere migliore.
19 anni fa nessuno poteva immaginare cosa sarebbe stato il G8, anche se si poteva annusare nell’aria.
19 anni fa non avevo ancora la coscienza di lotta che ho oggi, e che forse si è concretizzata sempre più proprio da allora, da quella ferita inferta alla mia città e mai sanata.
19 anni fa al G8 c’ero e non c’ero.
C’ero nel centro storico blindato, a dover chiedere il permesso di entrare nei vicoli che per me erano e sono sempre stati casa, e non concepivo l’idea di dover attraversare un cancello dopo essermi presentata ad un militare con la mitraglietta al collo, come io portavo la
mia borsa a tracolla da studente universitaria.
C’ero al concerto di Manu Chau, c’ero a sentire gli elicotteri girare sulla testa ad ogni ora del giorno, e a vedere navi e gommoni militari al largo di Pegli.
Non c’ero il 20 luglio, quando dopo avere violentato Genova – ed era solo l’inizio – hanno ammazzato Carlo come un cane, non prima di avere messo in prima linea un altro ragazzo come lui, solo dall’altra parte della barricata.
Non c’ero quando un poliziotto ha urlato ad un manifestante “lo hai ucciso tu, con quel sasso!”, ma era come se ci fossi per quante volte l’ho letta e l’ho sentita quella frase maledetta.
Non c’ero quando i black blocks venivano protetti dalla polizia che preferiva massacrare manifestanti inermi.
Non c’ero alla Diaz, anche se c’ero quando quell’amico poliziotto – che ha abbandonato la divisa subito dopo il G8 – subodorava quello che stava per succedere mentre bevevamo una birra insieme poche ore prima della mattanza avvenuta in quella scuola.
C’ero quasi sempre ad ogni commemorazione in Piazza Alimonda, c’ero a provare un brivido nei mesi e negli anni successivi ogni volta che mi trovavo una divisa davanti.
C’ero a tentare di raccontare quello che è stato il G8 per chi l’ha vissuto da dentro, da genovese, prima, durante, dopo, soprattutto a chi pensa che i manifestanti se la siano cercata, che fosse giusto così.
C’ero a piangere lacrime di rabbia ad ogni indagine insabbiata, ad ogni condanna mancata, ad ogni promozione concessa a quelle divise indegne.
C’ero, attonita, ad apprendere dei fatti di Bolzaneto, ad accettare con fatica che una sospensione dei diritti umani e una violazione della democrazia così feroce era avvenuta a due passi da casa mia.
“UNO DUE TRE VIVA VIVA PINOCHET,
QUATTRO CINQUE SEI A MORTE GLI EBREI,
SETTE OTTO NOVE IL NEG*ETTO NON COMMUOVE!”
In piena democrazia, in una sospensione dei diritti umani degna davvero della dittatura cilena, questo cantavano i poliziotti in caserma ai manifestanti in stato di fermo, e poi torturati.
C’ero e poi non c’ero più.
Perché per ciascuno di noi, il G8 di Genova, ha segnato un punto di non ritorno.
Per la mia generazione sembra quel passaggio catartico che si fa in certe tribù, quel rito per diventare adulti.
Perché quello che eravamo prima del 20 luglio 2001, da quel momento in avanti non è più esistito, sgretolato tra rabbia e incredulità.
Ci proverò un giorno a spiegarlo a Davide cos’è stato il G8, e a quelle nuove generazioni che forse la voglia di cambiamento che vivevamo allora nemmeno sanno cos’è.
Non sanno cosa sia la piazza, la partecipazione, manifestare, sentirsi parte di qualcosa, l’ingranaggio determinante di un cambiamento.
Questo volevamo dire, durante il G8, e non ce lo hanno permesso.
Hanno preferito massacrarci, farci scontare le pene dei nostri padri, in quella Genova del 30 giugno 1960, chiuderci la bocca a colpi di manganello.
Perché mi viene da pensare, che i piccoli soldatini armati di gommapiuma e striscioni tutto sommato devono avergli fatto molta paura.
E quel seme però è rimasto, ed è ancora lì, pronto a germogliare a distanza di quasi 20 anni.

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