allegroconbiro
DB59F1EA-33BC-425F-A316-681D27A3A0CF

Gli invisibili – Fernanda

Ti svegli che fuori è ancora buio.

Ti alzi piano, per non svegliare Paulina che dorme profondamente al tuo fianco, dopo essere rincasata tardi dal turno di notte.

Cerchi le pantofole tastando il pavimento gelido coi piedi, e ti trascini in bagno, sbadigliando.

La sveglia segna le 5 e 10.

Accendi la luce e gli occhi si fanno ancora più piccoli; ti sciacqui la faccia con l’acqua fredda, nel tentativo di svegliarti. Funziona solo in parte.

Ti guardi allo specchio e noti due rughe profonde ai lati della bocca. Devono esserti comparse questa notte, perché non le hai mai viste prima. Sicuramente c’erano, ci sono da chissà quanto tempo. Ma tu, il tempo di guardarti allo specchio non lo hai mai.

Per vedere cosa? La tua faccia da indio? Le occhiaie profonde? I primi fili bianchi tra i capelli che ti ostini a non voler coprire? O tutte quelle rughe? Sei invecchiata, e lo sai, non c’è bisogno che te lo dica nessuno.

Te lo dice lo specchio, ogni mattina, sotto la luce impietosa del neon.

Ti lavi le ascelle, metti il deodorante e leghi i capelli in una coda bassa.

Passando nel corridoio per andare in cucina chiuda la porta della stanza di Bianca a Flora, le figlie di Paulina.

Lei ce l’ha fatta, pensi con un sorriso triste.

Accendi sotto al caffè, quest’abitudine italiana che hai imparato e apprezzi, e infili i jeans e un pesante maglione, preparati già dalla sera prima su una delle sedie della cucina.

Ti muovi con gesti rapidi e silenziosi, ormai hai imparato come fare per essere efficiente senza svegliare le tue coinquiline. E soprattutto per rubare anche solo pochi minuti alla sveglia.

Sorseggi il caffè bollente in piedi, appoggiata al lavello, sgranocchiando due biscotti. Alle 5.25 posi la tazza nel lavandino, ci metti dentro un dito d’acqua, prendi il pranzo preparato la sera prima nel frigo ed esci di casa.

Il turno dell’impresa di pulizia è dalle 6 alle 9. Alle 9.30 ti sposti di quartiere, per assistere la signora Guerrazzi, un’anziana vedova, che vive con la figlia, che però a sua volta lavora part time per una compagnia di assicurazioni, dalle 10 alle 16.

In quelle ore ti occupi tu di sua madre, per 650€ al mese, la metà in nero.

Dal venerdì alla domenica inoltre, servi ai tavoli in un pub del centro, dalle 18 fino alla chiusura. Ti pagano a chiamata.

Ma grazie a questi tre lavori guadagni bene. Quasi 1.500€ al mese.

Tolte le spese, metti via tutto.

Per il futuro di Pablo, per quando arriverà in Italia.

Manca poco ormai.

Solo il nullaosta del Prefetto, e poi qualche mese per la burocrazia in Ecuador, per ottenere il visto grazie al quale lui potrà raggiungerti finalmente.

Ricongiungimento familiare.

Due parole difficili, che hai imparato a pronunciare come una preghiera, e che danno esattamente il senso di quello che avviene fra due persone che si amano.

Ricongiungere, come i due lembi di una ferita che può chiudersi finalmente, dopo lo strappo atroce del distacco da tuo figlio.

Di lui hai negli occhi l’immagine di quando lo hai lasciato nelle braccia di tua madre. Era semi addormentato, aggrappato all’orsetto con cui dormiva sempre, non pareva rendersi conto di quello che stava succedendo.

Tua madre Florinda ti ha guardata negli occhi, severa e fiera al tempo stesso. Ti stava dicendo di farti valere, di andare a guadagnarti un futuro migliore del suo, del vostro, quando tuo padre se n’è andato di casa che avevi appena due anni. Migliore anche per Pablo, che di suo padre invece ha conosciuto solo le mani pesanti, che alzava regolarmente dopo aver bevuto troppo.

Pensi a tutto questo mentre sei sul bus che ti porta al lavoro.

Fuori ha cominciato a piovigginare. Ti distoglie da Pablo, il pensiero che non potrai spazzare il cortile del condominio. Un sollievo. Con tutta quell’umidità oggi hai un gran mal di schiena.

Ricordi quando, mesi fa, ti eri svegliata con un dolore lancinante ai lombi, tanto da non poterti alzare da letto.

Gabriella, l’anziana vicina, si era presentata con un pacchetto avvolto nella carta di giornale. Dentro c’erano dieci piccoli cilindri gialli, che puzzavano terribilmente di uovo marcio.

“Vegni chi” ti aveva detto lei in dialetto genovese, con fare materno, sedendosi accanto a te sul letto.

Ti aveva aiutata a girarti lentamente su un fianco, e aveva cominciato a passare quegli strani cannelli sulla parte dolorante.

“Qui va bene?”

“Un po’ in basso.”

Dopo pochi istanti, il cannello si era rotto in due. E la stessa fine l’avevano fatta altri sette.

“Complimenti figetta, il mio record è dodici. Questo è un bel colpo d’aria.”

Non capivi cosa ti stessa dicendo, ma vuoi il massaggio, vuoi l’affetto con cui Gabriella si stava prendendo cura di te, ti eri subito sentita meglio.

Gabriella, che la prima volta che ti aveva vista, incrociandoti nelle scale, non ti aveva nemmeno salutata.

La seconda volta, non era andata meglio. Eri scesa con una tazza vuota in mano, a chiederle un po’ di zucchero. Lei ti aveva aperto, aveva ascoltato la tua richiesta, e bofonchiando qualcosa in dialetto ti aveva chiuso la porta in faccia, senza nemmeno chiederti se volevi entrare.

Tu eri rimasta lì, con la porta di legno a un centimetro dal naso, e la tazza sospesa per aria, mentre sentivi le lacrime acide, di rabbia e umiliazione, che salivano lente in gola.

Stavi per andartene, per non darle la soddisfazione di vederti piangere, quando la porta si era riaperta, giusto uno spiraglio, dove lei aveva infilato un pacchetto di zucchero quasi finito.

“Tenga. Buonasera.”

E aveva richiuso la porta, senza nemmeno darti il tempo di ringraziarla.

Sull’umiliazione aveva vinto l’orgoglio. Quella sera, con quello zucchero, avevi preparato dei dolcetti al cocco, tipici del tuo paese.

Glieli avevi lasciati in un sacchetto appeso alla porta la mattina seguente.

Alla sera, rientrando dal lavoro, avevi notato che il pacchetto era stato infilato intonso nel sacchetto della spazzatura, che lei aveva volutamente posato in bella vista sul pianerottolo.

Non ti eri data per vinta.

Il lunedì seguente, hai appeso un nuovo sacchetto pieno di dolcetti al cocco.

Alla sera non c’era più.

Questo gioco andò avanti per qualche settimana, finché una sera non sentisti suonare alla porta.

Stupita, ti trovasti davanti Gabriella, in vestaglia e ciabatte.

“Ha deciso di uccidermi?”

“Come scusi?”

“Dico a lei: ha deciso di uccidermi, con tutto quello zucchero? Non lo sa che alla mia età dovrei tenere a bada la glicemia?”

“Io… io non sapevo, mi scusi, io…”

“Senta, facciamo così venga giù ad aiutarmi a mangiare qualche dolcetto. Mica posso continuare a spazzolarmeli da sola. Il medico poi chi lo sente? Ho messo su il tè”

Incredula avevi chiuso la porta alle tue spalle ed eri scesa da lei.

L’appartamento era modesto e pulito. Gabriella viveva evidentemente da sola.

Da allora quello era diventato il vostro piccolo rituale del lunedì: tu che lasciavi un sacchetto appeso al mattino, per passare la sera a mangiare dolcetti col tè, raccontandovi le rispettive vite.

Gabriella era vedova. Non aveva avuto figli.

Quando le raccontavi di Pablo le si inumidivano gli occhi.

Un lunedì sera, rincasando dal lavoro, avevi notato che il sacchetto era ancora appeso alla porta.

Ti sei allarmata subito; sei corsa in casa, a cercare le sue chiavi, e aperta la porta l’hai trovata svenuta sul pavimento.

Coma diabetico: altro che glicemia, quella zuccona, ignorando tutte le raccomandazioni dei medici, si era messa volutamente in pericolo di vita.

Da allora non l’avevi lasciata un momento.

“Vivi sciocchina, devi conoscere il mio Pablo”, le avevi detto sul letto d’ospedale dove l’avevano ricoverata d’urgenza.

Lei aveva fatto di sì con la testa.

***

Sentivi addosso il presagio di una tragedia imminente.

Tutta quella calma inusuale, i lunghi silenzi, il cellulare che non squillava più, la cassetta della posta sempre vuota.

Temevi che la tempesta si abbattesse improvvisa, senza lasciarti il tempo di trovare un riparo, o di mettere fondamenta sicure a quello che avevi già.

Attendevi di fronte alla finestra, dondolando il peso da un piede all’altro.

Non sapevi che quella era la quiete della resa. Di una battaglia combattuta troppo a lunga, e infine vinta.

***

Ti svegli che fuori è ancora buio.

Ma oggi non ti costa fatica alzarti anzi, non hai chiuso occhio tutta la notte. Paulina ti ha sgridata, perché ti muovevi troppo e non riusciva a dormire.

Ma oggi è un giorno speciale. Oggi arriva Pablo.

Stai andando alla stazione dei pullman, per prendere l’autobus che ti porterà a Malpensa.

Il terminal è grande come una città. Ti perdi tante volte, chiedi informazioni di continuo, hai il terrore di arrivare in ritardo, mentre il volo è puntualissimo.

Hai preparato un cartello, semplice. Un foglio bianco con su scritto a penna “Pablo”.

Hai paura che non ti riconosca, hai paura che non voglia venire con te, hai paura che scappi via, che si metta a piangere, che ti rifiuti. Sono passati quattro anni da quando l’hai lasciato appeso a quell’orsacchiotto, fra le braccia di tua madre.

Esce tra i primi. La hostess lo tiene per mano, e invece sei tu che fatichi a riconoscerlo. Più alto di due spanne, i lineamenti di un piccolo adulto, gli occhi seri che sembrano non tradire emozioni. E un orsacchiotto di pezza, stretto nella mano libera.

Il cuore si ferma.

Il cuore è una pietra, è duro, impenetrabile. Non potevi permettere ad altro dolore di entrarci, dopo la tua partenza. E nemmeno alla felicità. Una madre che lascia suo figlio non può più essere felice, è un lusso che non può permettersi.

Ma ecco che ora senti un “crack” ben distinto dentro al petto. E il sangue ricomincia a pulsare e un dolore vivo, come te, che torni a vivere, ti riscuote, mentre gli corri incontro, il foglio bianco in mano che sventola come una bandiera di resa, perché è finita sì, ora Pablo è qui.

***

Suoni alla porta, e Gabriella viene ad aprirti.

“E’ di là che fa i compiti, vieni.”

“Chi è, nonna?”

“Siamo noi, amore.”

Fernanda fa capolino in cucina, dove Pablo sta scrivendo su un quaderno, appollaiato su una sedia, mentre sgranocchia dolcetti al cocco.

Le briciole sono dappertutto, sulla tovaglia di plastica a fiori.

Pablo tira su la testa.

“Perché hai detto noi mamma? Chi c’è con te?”

Florinda fa capolino da dietro la spalla della figlia.

Gabriella in un angolo, imbarazzata, osserva la scena non senza commozione.

Pablo salta giù dalla sedia urlando “Nonna!” e Gabriella ha un sussulto.

Poi lui si ferma, le guarda entrambe. Corre ad abbracciare Florinda e poi le prende la mano

“Vieni Nonna, ti presento la mia nonna italiana.”

E unisce le mani delle due donne.

Quelle di Florinda sono asciutte, nodose.

Quelle di Gabriella tremano, per l’emozione.

Pablo le guarda, dal basso del suo metro e trenta.

Gabriella esita, non fa in tempo a respingere l’assalto di Florinda, che lascia le mani per stringerla in una abbraccio che la lascia senza fiato.

“Gracias”

Riesce a dire solo quella parola, internazionale. Come se non fosse bastata quella stretta a Gabriella, per essere inondata di gratitudine.

Si allontanano guardandosi fisso negli occhi, e Gabriella si avvicina ai fornelli.

Sorride e dice solo: “Metto su il te’?”

 

Leave a Reply