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Di buche, macerie e sensi unici

Noi genovesi, si sa, siam noti per essere un popolo chiuso, dedito al mugugno e poco ospitale.

Siamo ruvidi, scabri, come gli ossi di seppia di Montale.

Ma non si venga a dirci che pecchiamo in capacità di adattamento.

Sarà la vicinanza familiare del mare, che inesorabile macina, erode e consuma, finché ogni sasso non si arrotonda, ed ogni angolo è smussato.

In questi mesi abbiamo subito di tutto, in silenzio, andando avanti a testa bassa come muli, determinati a non farci schiacciare dalle macerie di Ponte Morandi, più di quanto non abbiano già fatto.

Abbiamo sopportato passarelle – un ponte ci serve, altro che passerelle – teatrini, sceneggiate, dichiarazioni offensive, risate di sciacalli, proposte dal retrogusto di presa per il culo, fotografie imbarazzanti, torte a forma di ponte, ponti a forma di parchi di divertimento, promesse, parole, parole, parole…

Ma più di tutto abbiamo subito lo stravolgimento dei nostri gesti quotidiani, e l’involuzione di una città su se stessa, che se già prima apparivamo chiusi, agli occhi del mondo esterno, ora sembriamo proprio sigillati ermeticamente, diffidenti e feriti.

E’ triste arrendersi all’evidenza che questa città è ormai spezzata in due, e chi vive in centro, o a levante, davvero non sa cosa significa per noi gente di ponente e della Valpolcevera spostarsi ogni giorno verso il centro.

La viabilità cambia pressoché ogni giorno.

Ogni mattina inforco lo scooter per andare a Genova, come usiamo dire noi sestresi, tra preghiere e bestemmie, imboccando strade al grido di “speremmu ben”, che non mi abbiano cambiato il senso di marcia durante la notte, o che qualche voragine apparsa all’improvviso non mi inghiotta e non torniamo più… (cit.)

Le strade sono un dedalo di buche, dossi, fossi, tombini interrati a mezzo metro di profondità, un pericolo che solo chi guida uno scooter ogni giorno può comprendere.

L’altra mattina una ragazza in moto mi è caduta davanti, nel bel mezzo di Lungomare Canepa, abbiamo rischiato la vita almeno in tre.

Per chi non vive a Genova è difficile capire cos’è Lungomare Canepa in questo momento alle 8 del mattino. Una specie di Tangenziale di Milano e Raccordo Anulare messi insieme.

Però peggio.

Un cantiere che doveva concludersi mesi fa, per dare vita a detta del Sindaco ad una specie di highway a dodici corsie all’americana.

Peccato che siamo a Zena, le corsie sono cinque e la sesta attenda da mesi di essere conclusa.

Nel frattempo ho battezzato tutte le buche, le conosco a memoria. Nonché il dosso che svetta a metà strada – uso il termine svetta non a caso, pare più un monolocale che un rattoppo – noto fra noi centauri metropolitani come “il pezzone”, una pezza di asfalto a venti centimetri sul livello del mare che mi sta costando le vertebre cervicali, gli ammortizzatori dello scooter e qualche anno di vita ogni volta che lo prendo a 5km orari in più del dovuto.

Questa è solo parte dell’eredità che ci ha lasciato il crollo di Ponte Morandi.

Una città ammaccata, piena di bozzi, ferite e lividi.

E per il momento, nessuna cura miracolosa.

Ci teniamo i dolori, come un vecchietto che si alza ogni mattina un po’ più indolenzito, sperando che di giorno in giorno vada meglio.

Anche se in cuor suo lo sa che la situazione può solo peggiorare.

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