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Le regole del lasciarsi

Una chiacchierata con un’amica virtuale, mi ha dato spunto per una riflessione sulla fine di una relazione, e su quanto sia pesante digerire giudizi esterni, sentenze di chi nemmeno c’era, su quanto sia difficile in realtà farsi un’idea precisa magari sentendo solo una campana, e su quanto sia facile invece finire per schierarsi sempre e comunque con chi viene lasciato.

La maggior parte delle mie relazioni sono finite per mia volontà, quindi so bene di cosa parlo.

Conosco il senso di colpa che schiaccia, ancor più se alimentato dalla controparte che, incredula di fronte alla risolutezza della nostra decisione, tenta ogni carta, ogni colpo, anche quello più basso, per farci cambiare idea.

Perché in genere un abbandono non arriva mai come un fulmine a ciel sereno; ci sono sicuramente precedenti, tentennamenti, pause di riflessione da cui si ritorna più sfiniti di prima ma incapaci di andare fino in fondo.

E l’errore sta proprio qui.

Io sono rimasta, tante volte, allungando solo l’agonia, incaponendomi su situazioni impossibili da mutare, spesso abbagliata dallo specchietto per le allodole che il partner di turno mi metteva davanti. “Sono cambiato/a, insieme possiamo farcela, guarda anche tizio e caio per esempio, superata la crisi sono più felici di prima.”

BALLE

Il più delle volte si resta per paura, per pigrizia, per il timore di rimanere da soli, per paura di far soffrire l’altra persona, per rispondere a convenzioni sociali, per i figli, per comodità.

Non si resta per amore, perché quando si arriva al bivio, e si decide di partire, il cuore è già spento.

Rimanere è forse uno dei miei difetti più grandi, quello che mi genera più rimpianti.

Sono rimasta in situazioni disperate, per tutti i motivi di cui sopra, seminando attorno a me solo altro dolore e altre macerie, instillando talvolta dubbi e insicurezze nella persona che mi stava accanto, che a sua volta mi investiva di accuse e responsabilità non condivise in un vortice di dolore senza soluzione di continuità, un gioco al massacro che avrebbe potuto concludersi molto prima, solo con qualche lieve ferita.

E invece no, ho sempre voluto andare fino in fondo, ed essere sicura che ci spezzassimo proprio tutte le ossa, tutte e 213, senza lasciarne integra nemmeno una.

E ciò nonostante, ne sono sempre uscita come la stronza che ha lasciato. Quella senza cuore. Quella che non ha voluto combattere. Quella che ha preso la strada più semplice. Quella in cerca di un brivido nuovo, fuori dalla routine. Quella incapace di dialogo e confronto. Quella egoista, che pensa solo a se stessa.

Perché il dolore di chi lascia non vale, non è autentico, è un dolore inutile, un dolore a metà. E’ il dolore di chi se la va a cercare.

Come se invece, vivere in una gabbia, simulando un sentimento inesistente, fosse una passeggiata di salute, come no. Però è una soluzione socialmente accettata. E allora va bene così, e se te ne vai meriti il peggio, meriti di essere infelice, almeno quanto tu stai rendendo infelice me…

Come sempre, io ho lo zoccolo duro dei miei affetti – le mie amiche, la mia famiglia – che mi sostiene e mi difende.

Ma chi è solo, non conosce altro mezzo se non quello di attirare l’attenzione perduta, senza esclusione di colpi.

Col tempo si matura una certa dose d’istinto di protezione. Si impara a difendersi dai colpi bassi, si impara a gestire il senso di colpa, si impara che talvolta non è il dolore a rendere cattive le persone, ma che certe persone sono proprio cattive di loro e che usano la sofferenza come alibi, per infliggere a noi il dolore di cui non sono in grado di assumersi la responsabilità, si impara insomma a mollare la presa per tempo, prima che certe zavorre ci affossino.

Perché la lezione più grande che possiamo acquisire, è che è proprio questo, l’unico modo per tornare a volare.

Ad averlo saputo prima eh? La formula è semplice: vince chi molla.

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