allegroconbiro
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Colorare nei bordi

Ho santificato la scorsa domenica come si deve, dedicandomi all’ozio e allo sbadiglio.
Me ne stavo sdraiata sul dondolo in giardino, un filo d’erba in bocca come Huckelberry Finn, e osservavo il cielo blu marino che sbucava tra le foglie di vite, e le nuvole bianchissime che si rincorrevano spinte dal vento.

Davide giocava con l’arco, il tempo era scandito solo da rumore delle ventose delle frecce contro il pannello di formica che usa come bersaglio.

Stoc… stoc…

I colori erano vividissimi, i contorni delle cose talmente netti che pareva che ogni oggetto saltasse fuori dal suo stesso profilo.

Ho toccato la fotocamera per fare una foto, e casualmente ho immortalato casa mia, che si stagliava affilatissima contro il cielo blu, e mi sembrava tutto talmente perfetto, logico, sensato, da sembrare impossibile.

Ripensavo al giorno prima con quel sorrisino ebete che solo le cose inaspettate possono portare, e mi chiedevo se fossi io a vedere tutto più limpido, con occhi nuovi, o se la pioggia del giorno prima avesse invece lucidato i monti, e le foglie e il cielo e il mare.

Pensavo ai confini, di cui avevamo parlato a lungo in quello che non era stato un sacco di cose (non era un appuntamento, non era ancora pomeriggio ma nemmeno più mattina, non era una prima volta e forse nemmeno l’ultima), a dimostrazione che non esistono regole, caselle, etichette, limiti, muri se non quelli che ci costruiamo, convinti di creare la nostra inamovibile comfort zone, che finisce poi per trasformarsi inevitabilmente in gabbia.

L’erba in bocca aveva un sapore amaro, l’ho sputata e mi sono messa a sedere. Ho persino fatto lo sforzo di mettermi un po’ di smalto sulle unghie dei piedi, nella speranza di scoprirli presto, e di scoprire che la primavera è arrivata davvero, portando con sé buone intenzioni e qualche malinconia a scaldare il cuore.

Pensavo al grigiore del giorno prima, che Genova quando piove sa essere davvero, davvero deprimente. Grigie le lastre d’ardesia, grigie le pietre dei vicoli, grigio il mare, grigie persino le facce stinte degli africani di via Pré, nemmeno ravvivate dalle loro camicie colorate. Eppure, nonostante la pioggia e il clima autunnale sentivo i sensi all’erta, che infatti sono esplosi al primo raggio di sole.

Guardavo ancora le nuvole, senza riuscire a definirne un contorno, e mi chiedevo che forma avrei dato ai miei pensieri il giorno prima, sospesi su quel tavolo – l’unico vero confine tra di noi – se avessi potuto disegnarli. Uno scarabocchio, oppure una forma precisa, da tracciare con una linea netta e riempire di colori diversi, uno per ogni emozione.

Pensavo al mio di contorno, a come poteva apparire di fronte ad occhi nuovi e a come senza nemmeno bisogno di dirselo, i nostri profili si siano fusi, stretti su una panca di legno, a creare un unico, bizzarro contorno, un mostro a due teste e due braccia e due gambe e due lingue intrecciate.

E mi è venuto in mente che Davide disegna gli omini ora proprio così: un contorno preciso prima, testa, corpo, gambe, braccia, per poi riempire gli spazi vuoti di colore.
E mi è sembrata una metafora perfetta di come mi sento in questo momento, piena zeppa di spazi vuoti, lasciati finalmente dalle zavorre sbagliate che mi trascinavo insensatamente appresso, pronti per essere riempiti di colore.

Non a caso dopo tutta quella pioggia è sbucato un arcobaleno straordinario, un semicerchio perfetto, che Davide immaginava proseguire sottoterra, a chiudere il cerchio.
E anche quest’immagine mi è sembrata talmente perfetta, logica, sensata, che l’ho tenuta così, come un buon presagio.

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