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La solitudine delle donne

Non ho sofferto di depressione post partum; la mia era piuttosto una malsana euforia post-partum, che solo dopo ho saputo spiegare con positivi sbalzi ormonali che mi facevano amare quella creaturina sconosciuta anziché avere voglia di gettarla nella lavatrice.

Non ho mai conosciuto nemmeno la depressione, né altre malattie di tipo psichico o psicologico, se non qualche sporadico attacco di panico, risoltosi da solo.

Forse per questo in passato sono stata piuttosto critica verso chi invece, intorno a me, lamentava sintomi tipici di un principio, o di una conclamata depressione.

Mi ci è voluto tempo ed esperienza per capire che anche quelle dell’anima sono malattie, da curare esattamente come un mal di gola o un’appendicite.

E invece sono ancora considerate un tabù nella nostra società, come se mostrare il dolore che ci portiamo dentro fosse sinonimo di debolezza o peggio, un marchio a fuoco, “il matto del villaggio”.

Non è un caso se in genere sono le donne a soffrire maggiormente di depressione rispetto agli uomini, ivi compresa la depressione post partum.

Perché le donne sono troppo spesso lasciate sole, e non basta uccidersi insieme al proprio figlio o morire sotto i pugni del proprio marito per denunciare questa realtà.

Si dà per scontato che la scelta di avere un figlio non permetta errori.

You’ve made your bed, now lie in it, dicono gli inglesi, ché l’idea di pedalare li stanca.

E per una mamma non c’è spazio per stanchezza, sconforto o istinti suicidi.

Non osare lamentarti, o sei una pessima madre.

Non dire che non ce la fai, perché sei un’ingrata.

Non mostrare segni di cedimento, o crollerà anche tutta la struttura che ti hanno messo sulle spalle, in decenni, secoli, di storia della maternità, fin da quando si preparava il corredo per le bambine, che altro non sarebbero diventate un giorno che spose, madri, casalinghe.

Si è sole ad accudire un bambino: troppo spesso quei primi mesi esclusivi diventano l’alibi per non allungare una mano per una carezza o per preparare cena al posto tuo.

Si è sole ad imparare ad allattare, a cambiare un pannolino, ad intuire l’arrivo di una febbre, a sedare un capriccio, perché l’istinto di una madre è infallibile, perché un bambino si quieta solo se c’è la mamma e certe cose solo una mamma le sa, solo una mamma le sente.

E se invece di saperle sta annaspando per impararle, o peggio ancora se proprio non si riesce a sentirle, il dito accusatorio della pubblica gogna è sempre pronto a metterci all’angolo: la peggior madre dell’anno, perché non allatta o non ha pazienza o si lamenta del poco sonno, e cosa ti aspettavi? Un bambino non è certo un giocattolo.

In ospedale si limitano ad assicurarsi che il bambino stia bene, e se c’è poco latte ti liquidano con il nome del latte in polvere in voga al momento tra i pediatri; e guai a chiedere di lasciare il bambino al nido di notte, o l’infermiera di turno ti liquiderà con un’occhiataccia e ti lancerà il bambino come un frisbee alle sei del mattino, perché 5 ore di sonno sono pure troppe per una neomamma.

Il resto è affar tuo.

In fondo la maternità è la cosa più naturale del mondo, siamo state capaci tutte, dalla notte dei tempi, perché tu no?

Ma la solitudine delle donne è una storia vecchia come il mondo.

Siamo sole quando nostro marito ci mette le mani addosso e nessuno ci garantisce protezione.

Sole le vittime di violenza che se la sono andata a cercare.

Sole le prostitute sfruttate ai lati della strada.

Sole quando non possiamo passeggiare tranquille di notte.

Sole ad accudire i nostri anziani.

Sole quando il nostro compagno ci tradisce, e tocca ancora una volta a noi trovare colpe e perché e rimettere in piedi una coppia, o una famiglia.

Sole quando firmiamo le dimissione perché siamo rimaste incinte.

Sole e inadeguate, quando non sappiamo più gestire i sensi di colpa nell’incapacità di gioire di qualcosa che dovrebbe essere normale, e per noi è impossibile.

Fa paura ammettere che c’è qualcosa che non va.

Ma da sole non saremo mai in grado di rendercene conto.

E allora volare giù dal quinto piano sembrerà la soluzione più naturale, ancora più di quella di aver messo al mondo un figlio, che da quel mondo decidiamo di portare via, per non farlo soffrire più.

 

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