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Allegro con Biro

Amo la mia città

Odio la mia città, presuntuosa e arrogante, che non ha bisogno degli altri, che ti soffoca col suo clima di rabbia e depressione, e quei vicoli troppo stretti per camminare, e quelle montagne dietro e il mare davanti che non fanno respirare.

Amo la mia città, aperta e accogliente, amo il suo Ghetto colorato, patria degli “ultimi” di Don Gallo e De André, amo le sue prostitute, i trans, le donne africane in pagnes colorati e le loro bancarelle, i vicoli sporchi e zeppi di odori, dove so sentirmi a casa come in nessun posto al mondo.

Amo la miscellanea di lingue, dialetti, culture, piatti cucinati e tradizioni mescolate; amo i genovesi “sarveghi”, che prima di lasciarsi andare ti annusano, ti scrutano, ma quando aprono le braccia lo fanno con tutto il cuore e un pezzetto di anima.

Odio la mia città bigotta e chiusa, piena di pregiudizi, incapace di una vera accoglienza, la mia città che guarda al suo ombelico, alle punte dei piedi, al suo orticello di 20 centimetri quadrati e non riesce a staccarsi dalla tradizione, a guardare al futuro, ad imparare che solo aprirsi, diventare comunità è la strada possibile.

E odio i vicoli, diventati prima una zona d’élite, che ha scacciato i suoi abitanti nel Ghetto e nelle periferie, per ritornare in breve tempo una terra di nessuno, fertile per la violenza e la criminalità.

Odio le prostitute, perché non è possibile assistere ancora a queste forme di schiavismo e sfruttamento nel 2014, come se non fossimo mai stati capaci di evolvere da 300 anni a questa parte.

Amo la mia città, vivace e in fermento, la sua ricchezza culturale, i piccoli festival estivi, il cinema e il teatro all’aperto, le manifestazioni spontanee di musica e danza, le mostre imperdibili, le guide turistiche che portano a spasso i visitatori alla scoperta dei piccoli e grandi gioielli che questa città misteriosa nasconde e dona all’improvviso.

Amo le facciate colorate che hanno fatto innamorare Rubens e che si nascondo a prima vista, le piazzette che si aprono all’improvviso, alla fine di un vicolo buio e un po’ puzzolente, inondando di luce chi ci arriva stanco di giri nel labirinto dei vicoli, e rivelando piccoli tesori, giardini, una lapide, un’edicola votiva, una panchina per posarsi.

Odio la mia città, i negozi chiusi la domenica, l’ostilità verso i turisti, l’incapacità di valorizzare i suoi tesori artistici, la guerra aperta contro chi cerca di fare arte e cultura, e le mostre banali e ripetitive, la mancanze di idee innovative, la pigrizia nello svelarsi, la durezza dei commercianti, il menefreghismo verso le proprie potenzialità, la quasi totale assenza di attività rivolte ai giovani. Perché siamo una città di vecchi, di vecchi che chiamano la polizia quando c’è si fa musica (chè questa non è musica, è rumore!), di vecchi che non hanno un futuro, di vecchi che rifiutano tutto quello che è innovativo, apertura, gioia di vivere, ribellione a questo peso insopportabile che questa città ti getta sulle spalle, come una coperta che invece di scaldarti ti impedisce di muoverti, di respirare.

Amo la mia città nei giorni secchi di tramontana, i contorni netti, taglienti come il vento che screpola le labbra e secca gli occhi.

Amo i tetti grigi di ardesia, come le scaglie sul dorso di un dragone, gli strati di case costruite una sopra all’altre nei secoli, le autostrade di cielo azzurro che si incrociano gettando il naso all’insù, nei vicoli, i palazzi con due ingressi, in alto e in basso, nella zona collinare, che testimoniano la sua capacità di adattamento a un territorio difficile, angusto, che a tratti protegge e a tratti stritola.

Odio la mia città nei giorni di pioggia, infiniti, quei giorni che provocano disastri e alluvioni, o semplici crisi depressive nell’attesa del sole, quando tutto è grigio, grigio il cielo, grigie le scaglie del dragone sui tetti, grigio il mare, grigie e lucide le pietre per strada, grigia la prospettiva di vita in questa città così difficile, così dura, così ostile.

Amo la mia città nei giorni tiepidi di novembre, quando puoi godere delle spiagge vuote, del mare un po’ incazzato, della focaccia tiepida mangiata su uno scoglio indossando solo un maglioncino.

Amo la sua bellezza severa, per nulla sfrontata, la sua storia millenaria che si respira ad ogni passo, i palazzi imponenti che contengono meraviglie che da fuori non puoi immaginare, i dettagli liberty svelati in un palazzo del ‘400, le trattorie che si sfidano a colpi di trofie e farinata, la pavimentazione della via dei Musei, il cagnolino nascosto nei fregi della Cattedrale.

Dicono che la mia città la odi o la ami, e quando la ami non riesci mai a staccartene del tutto.

Ti entra sotto la pelle, ti affolla i pensieri, ti manca quando non ci sei.

Eppure ogni diventa sempre più difficile trovare una ragione per restare.

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